mercoledì 25 giugno 2008

IL PIOMBO DI MITROVICA (seconda parte)

Le ultime da Osterode Camp

Osterode camp, costruito nel 2005 in quella che prima della guerra era una base militare serba e successivamente una postazione francese, ospita oggi più di 400 persone in container tra stradine asfaltate, ex-capannoni militari dismessi e riutilizzati dai rom e, un piccolo parco giochi, il tutto circondato da filo spinato. Certo Osterode -oggi monitorato dalla Norwegian Church Aid, agenzia che coordina i donors e le attività del campo- appare, al primo impatto, una struttura ben più comoda e pulita rispetto ai capannoni sporchi ammassati sulle rotaie ferroviarie del campo di Cesmin Lug, distante appena poche decine di metri. Tuttavia, il rappresentante Rom del campo, il Sig.Habib Haidini, senza tanti giri di parole ci tiene a precisare che cambia poco avere un container mettallico di limitate dimensioni e piccole strutture di divertimento rispetto alle baracche di lamiera contorte del campo vicino. “Non è una casa, e quelli a Cesmin Lug non vengono da noi perchè sono della nostra stessa opinione: stiamo tutti aspettando una casa, una casa vera”. Habib incontra quotidianamente i rappresentanti di enti istituzionali locali e non per far pressioni e cercare di velocizzare i tempi affinchè tutti i Rom dei due campi possano essere finalmente trasferiti in una struttura permanente –il campo di Osterode doveva rimanere funzionante appena un anno- una casa nel quartiere Roma Mahala che si sta ricostruendo. Oggi nella vasta area della residenza storica dei Rom di Mitrovica, nonostante l’attualità della “minoranza Rom” nell’agenda politica delle istituzioni e organizzazioni internazionali, sono stati però costruiti appena un centinaio di case e quattro blocchi plurifamiliari che ospitano non più di 250 persone. Molte delle case ancora non sono state assegnate, probabilmente per via dei complessi criteri che richiedono lunghe procedure burocratiche, e per altri motivi. Un dato certo è che, alla metà del 2008, non è stato fatto abastanza per i Rom di Mitrovica. Eppure è passato poco più di un anno da quando, nel marzo del 2007, gli alti rappresentanti delle istituzioni internazionali, degli uffici diplomatici e lo stesso Primo Ministro del Kosovo in una grande giornata commemorativa hanno tenuto un’imponente cerimonia di inaugurazione del quartiere Roma Mahala a Mitrovica. Grandi parole allora erano state spese da tutti, le più gettonate delle quali erano “multiculturalità” e “integrazione”. Stando alle testimonianze più recenti, come quella di Sokol Kursumlija, da anni impegnato nel campo Osterode con progetti educativo-ricreativi attraverso l’associazione locale multietnica di cui è Presidente, non c’è da stare sereni e tranquilli: anche per Osterode si parla di gravi casi di contaminazione da piombo che colpiscono soprattutto i suoi più giovani inquilini. Tuttavia Sokol ci tiene a precisare, rimanendo fermo sul fatto che effettivamente i Rom a Mitrovica vivono da tempo in condizioni a dir poco precarie, che l’argomento contaminazione da piombo non può essere circoscritto al solo discorso che verte sulla minoranza Rom, vittima a suo parere di intrighi politici, ma deve essere generalizzato in quanto riguarda l’intera area di Mitrovica. Nel caso specifico di Zitkovac, piccolo villaggio a Nord di Mitrovica, Sokol sostiene, ad esempio, di trovare “assurdo che per la sola opportunità politica soltanto per i Rom che vivevano dall’ altra parte del binario si è parlato di contaminazione mentre per i Serbi che vivono a tutt’oggi lì, a due passi da dove si trovavano i Rom, c’è ancora assoluto silenzio e nessuna preoccupazione”. Forse per via delle scarse condizioni igieniche e del contatto con la terra tipico dei bambini, i piccoli Rom sembrano tuttavia particolarmente esposti all’avvelenamento da piombo. Nel campo Osterode di recente sono stati fatti dei test sui bambini dallo staff del WHO. I risultati però sono stati negati ad Habib e gli altri Rom, che pure li richiedevano insistentemente. Stando a Sokol, per questioni di privacy i dati del WHO non potevano diffondersi, neppure ai rappresentanti UNICEF che lavoravano nel campo. “Io volevo sapere almeno il numero o la percentuale di persone contaminate di Osterode, potevo non saperne i nomi; quando quell’organizzazione mi ha negato i dati, mi sono rivolto alle strutture mediche di Mitrovica Nord dove hanno effettuato i test sui bambini. Il risultato è stato chiaro: contaminazione da piombo per la maggioranza di loro”, ricorda Habib. Un argomento così delicato da un punto di vista etico, morale, sociale e politico non dovrebbe comunque essere lasciato solo alla spicciola cronaca cittadina che spesso, incapace di sortire i necessari effetti, finisce col creare invece soltanto involontaria disinformazione. La comunità internazionale e enti di spessore come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, piuttosto che coprire la realtà con il silenzio, potrebbero seguire l’esempio positivo di altre organizzazioni che in Kosovo dedicano tempo, spazio e tanti soldi per pubblicazioni sistematiche di bollettini sui diversi argomenti. È tempo che un dossier ufficiale, onnicomprensivo e chiaro, esca allo scoperto per far luce su tutti questi anni bui. Fino a quando su queste tematiche aleggeranno solo e soltanto strumentalizzazioni di ogni genere, il problema dei Rom e della salute pubblica dei cittadini di Mitrovica resterà solo appanaggio dell’agenda politica che potrà continuare ad usarle a propria discrezione.

di Federica Riccardi e Raffaele Coniglio


articolo pubblicato sul sito di peacereporter.net, carta.org e osservatoriobalcani.org

domenica 22 giugno 2008

IL CALCIO "EUROPEO"


Il calcio che unisce e rafforza le identità
Ieri sera, nella prima calda serata d'estate, ho fatto un giro tra i bar e le caffetterie di Mitrovica nord. Piene come al solito e con una leggera musica di sottofondo, il Dolce Vita, così come Incognito, trasmettevano su schermi ultrapiatti la partita della serata: Olanda-Russia. Non ho seguito la partita, intento com'ero a sorseggiare la mia fredda jelen pivo; lo facevo a tratti quando le urla degli spettatori interrompevano la mia conversazione. L'affinità politica prima che culturale con la "madrepatria" Russia è un dato assodato per i cittadini serbi, a maggior ragione per quelli che vivono in questo posto per i motivi che tanto conosciamo. Icone dello zar Putin, adorato come un santo, ricoprono varie pareti in luoghi pubblici e non. Anche il calcio può essere un ottimo collante in tal senso.
Una partita emozionante a detta di Naser che dopo un equilibrato 1-1 dei primi novanta minuti di gioco, si è trasformata, nei tempi supplementari, in una grande vittoria per i russi che hanno chiuso il match con 2 gol di scarto. Grande entusiasmo si è subito sprigionato tra la gente, cori di gioia e sorrisi energici uscivano dai volti degli spettatori. Ho subito capito quanto avessero sofferto nei primi 45 minuti e quanto sentivano propria questa partita.
Non pensavo tuttavia che l'entusiasmo potesse arrivare a tanto. Una decina di macchine, piene di ultras si sono ritrovate a festeggiare per le stradine di Mitrovica la vittoria della Russia. Macchine, taxi, pugni alzati e bandiere serbe a fare da sfondo a questo euforico primo giorno d'estate. Tra la parata di macchine ho visto anche un bel jeepone bianco, vetri scuri e le quattro frecce accese, targa UN 25166.

sabato 21 giugno 2008

IN EVIDENZA

L'Italia chiamò, un documentario di Matteo Scanni, Angelo Miotto e Leonardo Brogioni, racconta l'altra faccia delle missioni all'estero: l'uranio impoverito.

Quattro militari italiani che hanno partecipato alle missioni di pace in Bosnia, Kosovo e Iraq cercano un difficile ritorno alla vita dopo essersi ammalati di tumore dormendo nelle caserme bombardate con proiettili all’uranio impoverito.
Per saperne di più clicca qui


mercoledì 18 giugno 2008

IL PIOMBO DI MITROVICA

Anche qui a Mitrovica il problema esiste e sebbene dalla fine della guerra in Kosovo del 1999 l'intera frattura tra Albanesi-Rom-Serbi non si sia ricucita, a farne principalmente le spese ancora oggi sono loro, i Rom. (Prima parte)

Tra i tanti primati che una volta caratterizzavano Mitrovica vanno annoverati il fiorente indotto minerario che faceva della città e dintorni una delle più importanti aree del Kosovo e dell’ex Jugoslavia (per estrazione di minerali, loro lavorazione-trasformazione e successiva produzione di batterie), e il più grande quartiere Rom del Kosovo, il Roma Mahala. Questi due aspetti sembrano non avere interconnessioni fra loro mentre invece hanno stretti legami e tragiche conseguenze.
Gli impianti di Trepca, il polo minerario nella ricca regione di Mitrovica, hanno contribuito notevolmente all
o sviluppo economico e sociale di questa zona per tutti gli anni '70 e '80. Erano più di 20.000 le persone impiegate, di cui la metà provenienti dalla sola area di Mitrovica, con salari indimenticabili e tanti benefits per le famiglie. Sebbene la città fosse prospera e occupata con il lavoro delle miniere, la gente rimaneva comunque insoddisfatta per via della mancanza di investimenti successivi agli introiti delle miniere. Un detto di quei tempi recitava "Trepca punon Beogradi ndėrrton" (a Trepca si lavora e a Belgrado si costruisce), sintetizzando questo aspetto.
8.000 o forse poco di più erano i membri della comunità Rom che vivevano
nel quartiere Roma Mahala di Mitrovica, una striscia di terra a sud del fiume Ibar che sembra interporsi tra i serbi e gli albanesi. I Rom anche allora come oggi non erano ben inseriti nelle strutture sociali della città, non godevano di una buona reputazione, e si sono trovati, durante gli anni dello scontro etnico in Kosovo, tra due fuochi, quello serbo e quello albanese.
Oggi la fotografia di Mitrovica è un’altra. L’intero indotto di Trepca è ridotto all’osso, nell'impianto lavorano meno di un migliaio di operai e, vi si estraggono soltanto i minerali. Gli impianti di lavorazione e trasformazione del piombo, rame, zinco sono dismessi e riversano in uno stato fatiscente. Insieme al polo turistico di Bresovica, gli impianti di Trepca sono stati un grande fallimento per la KTA , l’agenzia incaricata per le privatizzazioni in Kosovo. Quello che è rimasto dei fiorenti e produttivi impianti minerari, oltre alle obsolete strutture, è l’inquinamento del suolo. Mitrovica oggi ricopre il triste primato di città più inquinata del Kosovo e dell’ex Jugoslavia.
A farne le spese sono tutti i suoi cittadini, i Rom più degli altri. Ed oltre al problema dell’inquinamento, che li vede vittime di intrighi politici, i Rom sono anche cittadini privi delle loro case. Facilmente manipolati dai serbi e indiscriminatamente percepiti come traditori e nemici dagli albanesi, si sono visti annientare da questi ultimi tutto il loro quartiere storico. Inermi, dal lato nord del fiume che oggi divide etnicamente la città in due, hanno assistito alla distruzione delle loro case. Quelli che avevano deciso di affrontare di petto la situazione persero la vita. In tanti sono scappati in Europa, in Montenegro, in Serbia.
I pochi Rom rimasti a Mitrovica sono stati costretti a vivere, in mancanza di alternativ
e, in posti malsani e inquinati. I campi di Zitkovac, Cesmin Lug e Kablare, tutti nella parte nord di Mitrovica, furono costruiti nel novembre del 1999 per ospitare circa 500 persone di etnia Rom scappate dal loro grande quartiere. Da allora e per tutti questi anni il problema dei Rom è diventato sempre più grande.
Dovevano restare in questi posti per 45 giorni, solo Zitkovac è stato chiuso, ma soltanto nel 2006 ed i suoi abitanti sono stati dislocati negli altri campi. Nei tre campi di Zitkovac, Cesmin Lug e Kablare molti bambini mostravano infatti i classici sintomi da inquinamento da piombo: perdita di memoria, mancanza di coordinamento, vomito e convulsioni. Il Prof. Nait Vrenezi dell’Università di Pristina già in un suo studio del 1997, condotto congiuntamente con numerosi esperti internazionali, affermava che l’esposizione continua ad ambienti con alta concentrazione di piombo crea nei bambini danni motori e di percezione permanenti.
Dal 1999 al 2006, 27 persone sono morte a Zitkovac, molte delle quali con ogni probabilità a causa di avvelenamento da metallo pesante, anche se autopsie non sono mai state effettuate. Nel 2000 furono effettuati diversi test e analisi sugli abitanti dei campi dall’allora consulente russo dell’ONU, Dott
. Andrei Andreyev, che confermavano fuori da ogni dubbio l’alto livello di concentrazione di piombo nel loro sangue. Andreyev allora inoltrò un report dettagliato contenente dati e cifre all’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNMIK, chiedendo loro di provvedere ad una immediata evacuazione dei campi. Il suo report, però, che oggi non è disponibile al pubblico, non ha avuto nessun riscontro pratico, se non che molti funzionari internazionali della polizia di Unmik, che giornalmente facevano jogging accanto al campo di Cesmin Lug, dovettero fare immediati accertamenti medici, e si scoprì che il tasso di piombo nel sangue era così alto da richiedere il loro rimpatrio. Nel 2004 test capillari su 75 persone dei tre campi, principalmente bambini e donne incinte, mostravano che 44 di loro avevano livelli di piombo nel sangue più alti di quanto il macchinario potesse misurare (65 mg/dl), laddove 10 mg è considerato il punto in cui vi è un serio rischio di danni al cervello o al sistema nervoso.

di Federica Riccardi e Raffaele Coniglio

leggi la seconda parte

articolo pubblicato su peacereporter.net, carta.org e osservatoriobalcani.org

Per approfondimenti:
http://www.jstor.org/pss/3433876,
http://www.paulpolansky.nstemp.com/about.html


martedì 10 giugno 2008

INDIAN FOOD & COMPANY

Questa proprio non ci voleva. Il mio ristorante preferito “Indian Food” è stato improvvisamente chiuso. Proprio questa mattina mentre passavo da lì, incuriosito per i lavori che stavano facendo, ho pensato di chiedere se i cingalesi stessero ristrutturando. Pronta è stata la risposta negativa del muratore che ci lavorava che mi ha informato del nuovo caffè – tipicamente kosovaro- che prenderà il posto del vecchio ristorante.“L’Indiano” così lo etichettavo, era un piccolo ristorante di proprietà di cingalesi, persone semplici, apparentemente timide e riservate, giunte in Kosovo da anni, venuti da così lontano e spinti, non so bene da che cosa, ad aprire un ristorante etnico qui a Pristina. Certo quella della ristorazione è un’attività tra le più proficue in Kosovo dove si possono trovare ristoranti tipici albanesi, serbi, ristoranti italiani, cinesi, c’è anche il messicano, il giapponese e persino un nepalese. Sicuramente è anche per questo che a Pristina si mangia molto bene. Io però ero molto affezionato a questo posto piccolo dalla cucina buona e speziata, economico e silenzioso, in pieno centro. In effetti da quando sono stati ultimati i lavori di riqualificazione dell’area pedonale nel cuore di Pristina, tra il Grand Hotel e il Palazzo di Governo, inaspettatamente gli amici cingalesi con il loro ristorantino si sono ritrovati di colpo nel posto più interessante che potessero mai trovare. Appunto per questo, da diversi mesi notavo la presenza di personale kosovaro dietro la cucina. Questo è molto insolito. Si possono trovare cuochi kosovari in ristoranti italiani e internazionali in genere, ma la presenza degli stessi in quelli indiani o cinesi è veramente rarissima se non inesistente. Fatto sta che da quella volta ho prestato attenzione a queste presenze. L’ultima volta, appena un mese fa, seduto ad un tavolo ho visto il simpatico proprietario del locale discutere sottovoce con una persona di orgine albanese kosovara. Intuivo dove sarebbero arrivati. La longa manus albanese si sarebbe presto addentrata fin dentro gli affari del ristorante. Così è stato. L’ultima volta che goloso di assaggiare il loro piatto forte,chicken kuruma, con tutte le salsine piccanti e speziate, ho notato le insegne staccate e la porta chiusa, mi è caduto il mondo addosso. L’Indian Food era stato chiuso. In un primo momento speravo in una ristrutturazione o ingrandimento del locale, ma quando ho saputo quanto stava accadendo non ho potuto far altro che pensarci sopra e ho tratto la conclusione che qui in Kosovo, e maggiormente nella sua commerciale capitale, tutto, ma proprio tutto, è soggetto a continuo cambiamento. Seduto davanti a un caffè cercavo di riflettere su questo. Di colpo, quasi istintivamente ho alzato la testa e preso visione del posto in cui mi trovavo. I locali del pub-ristorante "92", di fronte al quartier generale di Unmik, pochi mesi prima di quest’ultima apparizione ospitavano un’attrezzata e rifinita caffetteria e prima ancora una struttura credo di Unmik o forse privata, non saprei, che vendeva cartine e mappe geografiche del Kosovo, in tutte le forme e dimensioni. La stessa distrubuiva anche i mensili informativi di Unmik e Osce. Tutti questi cambiamenti sono avvenuti in meno di due anni. Da oggi farò a meno del ristorante indiano. Mi sono già rassegnato, ma faccio veramente fatica a capire cosa c’è dietro questa maledetta voglia di cambiamento, a maggior ragione quando gli affari delle attività commerciali vanno –o sembrano andare?- a gonfie vele.
P.S. nulla di personale per carità, ma il nome che hanno dato alla caffetteria, "New Born" (oggi 11 giugno, passando da lì ho visto la nuova insegna) mi ha irritato e non poco.

venerdì 6 giugno 2008

UNA STRANA CITTA' NORMALE

Kamenica in serbo, Dardane in albanese due nomi nettamente distinti, ma una casa comune per le due principali etnie che compongono il Kosovo.



La gente di Kamenica, sotto una calda e soleggiata mattina di giugno, passeggia lungo il piccolo corso che l'attraversa. Questa piccola cittadina, situata nella parte ovest del Kosovo, confinante con la Serbia (la prima citta' serba di Serbia, Bujanovac, dista in linea d'aria poche decine di chilometri) è l'espressione più compiuta di quell'integrazione multietnica che sino ad ora e per tantissime ragioni è rimasta sulla carta e su quei documenti (raggiungimento degli standards) che i vertici di Unmik e del Gruppo di Contatto hanno poi inoltrato via New York a tutte le cancellerie europee.
Kamenica oggi come ieri gode di un clima sereno e rilassato, probabile risultato dell'animo pacato della sua gente. Mi ritorna in mente, proprio ora che sto per battere la lettera b (di battere) il lucido testo di Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi (L'Esprit des Lois), dove si afferma che fattori come il clima, l'animo delle persone e la posizione geografica possono avere delle influenze sui vari ordinamenti politici, condizionandoli. Kamenica si trova in quella zona del Kosovo definita "a macchia di leopardo", composta cioè da villaggi misti di serbi e albanesi (incluse le zone di Gnjilane/Gjilane e Viti/Vitina) che durante la guerra e forse per via di quell'inclinazione pacifica che caratterizza la sua gente non è stata teatro di scontri e uccisioni, sebbene potesse essere, per via di questa sua stessa conformazione geografica, altamente sensibile e quindi pericolosa.
Per nostra fortuna l'area non presenta questi tratti violenti, anzi, in questo incerto inizio di giugno si gode il suo clima disteso. Le poche notizie che sino ad ora avevo di Kamenica non solo trovano rispondenza in situazioni che ho da poco vissuto, ma escono rafforzate per via delle colorate scene giovanili che mi si presentano davanti. Al Kosovo che ho visto fino a ieri devo aggiungere quest'altra sua particolare componente: l'aspetto giovanile di Kamenica. Giovani abbastanza socievoli, con un abbigliamento alla moda e luccicanti orecchini ai lobi, ragazze dall'aspetto vistoso intente a chiacchierare con i loro coetanei in atteggiamenti a noi normali e comuni, ma piuttosto insoliti in buona parte del Kosovo. Credo che tutto ciò sia il risultato dell'aria di vicinanza con la dinamica Serbia. Queste mie supposizioni trovano subito conferma nelle parole di Fatos, 22 anni studente di Economia all'Università di Pristina, che, diretto, aperto e disponibile al dialogo con il sottoscritto, appare in sintonia con il classico stereotipo delle persone che vivono da queste parti. Alla cassa di un grande supermercato in pieno centro, ci ritroviamo immersi in una piacevole conversazione il cui nucleo centrale verte sulla convivenza e l'interazione tra serbi e albanesi di Kamenica. Col senno di poi, ammetto che l'ho bombardato di domande, perplesso e esterrefatto com'ero per via delle sue parole. "si, loro sono serbi" affermava indisturbato guardando un gruppo di giovani poco distante, "sono in tanti che vivono qui con noi a Kamenica", continuava. Nella lunga conversazione il longilineo Fatos mi ha presentato con le sue dichiarazioni quello che ho sempre cercato in lungo e largo per il Kosovo, ovvero il saluto e l'interazione positiva tra le due etnie. "Qui a Kamenica, ci si saluta", mi fa presente Fatos "ogni tanto con il dobre dan, altre con il miredita". "Certo, anche loro hanno attività commerciali in città" dice rispondendo alla mia domanda. Fatos racconta anche del suo amico, "l'Iracheno" come lo chiama lui (per via del fratello che lavora da nove anni con gli americani ed è da qualche anno in Iraq negli uffici dell'esercito Usa), che ha come vicini dei serbi con i quali si ritrova ogni tanto a casa loro per riparare piccole attrezzature informatiche. "Saltuariamente si va anche in Serbia, in posti dove vivono gli albanesi, e non abbiamo mai avuto problemi lì" sentenzia. Quasi faccio fatica a credere alle parole di Fatos, ma presto devo convincermi del contrario per me abituato invece al clima gelido di Mitrovica. Vedo macchine serbe con tanto di targa serba circolare liberamente e persone serbe fare le cose più banali, come benzina in un rifornimento di proprietà albanese o passeggiare indisturbati in città. Per una volta sono stato io a sentirmi anormale in una citta che ha tutte le sembianze della normalità.


articolo pubblicato sul sito di peacereporter.net , peacelink.it e viaggiareibalcani.net

domenica 1 giugno 2008

UNA BOCCATA D'OSSIGENO PER TUTTI


Questa settimana mi è capitato di percorrere, per questioni squisitamente private, la tratta Pristina-Bar e ritorno in autobus. "Cosa vuoi che sia" si potrebbe obiettare, "oltretutto sono poche centinaia di chilometri", si potrebbe supporre. Eppure così non è! Sebbene le due città distino all'incirca 250 km l'una dall'altra, le ore da "sgranocchiare" in autobus sono ben dieci (10) a tratta. Non è la prima volta che affronto viaggi del genere, direzione Montenegro o altre mete ( ricordo le 10 ore per Tirana, le 12 per Sarajevo, le 18 per Istanbul, ahhh si!! le altrettante 18 per Pula per prendere poi la Ryanair in vista di Dublino). Non mi sono mai spiegato fino in fondo il perchè mi piacciono viaggi così stressanti, lunghi e scomodi, ma di sicuro l'ebbrezza che si prova nel viaggiare per così tante ore su un mezzo circoscritto e limitato come può essere l'autobus è tanta. Incontrare persone di ogni tipo e con diverse esigenze, sostare in posti che mai avresti pensato esistessero e avessero quei nomi, il vedere dal finestrino le luci fioche delle case sperdute, poi la strada e via su per le montagne. Trovo tutto questo affascinante. Personalmente intendo il viaggio (o vacanza) come nuova conoscenza, scoperta e avventura. Credo sia questa la vera essenza del perchè mi piace affrontare questo tipo di viaggi. Il viaggio in autobus mi da tutto questo e oltre. Chiusa parentesi! A capo.
Consumare le ultime energie sull'autobus per poi passare un'interessante fine settimana lontano dal polveroso Kosovo è stato un motivo in più per avventurarmi nuovamente alla volta della splendida Kotor e Budva. Per me è stata una boccata d'ossigeno, un viaggio rigenerante quasi. Ma non per tutti è sempre così. In quest'ultimo viaggio in terra montenegrina ho notato delle piccole stranezze. Innanzitutto i collegamenti sono più che raddoppiati, in secondo luogo il prezzo del biglietto è fortemente diminuito. Con soli 20 euro si paga l'andata e il ritorno.
Alle 18.30 una marea di gente aspettava, insieme al sottoscritto, di poter presto salire e prendere posto sui tre autobus della compagnia Barileva. Tutti rigorosamente kosovari e tutti orgogliosamente uomini i miei compagni di viaggio. La mia curiosità su tutto ciò era talmente tanta che alla prima occasione utile ho chiesto a Zoran, il signore seduto dietro di me, il perchè di tutta questa gente diretta ad Ulcinj, in un periodo di bassa stagione. Nemmeno in piena estate gli autobus partono da Pristina così numerosi per raggiungere quella che è la loro Rimini, pensavo tra me e me. "LAVORO" è stata la sua risposta.
Zoran fa il manovale da tre mesi a Ulcinj per una impresa locale, divide una casa con altri suoi compagni e approssimativamente una volta al mese fa ritorno dai suoi cari per ristorarsi e portare una piccola manciata di soldi. Come lui, da Ferizaj, Drenas e altri villaggi del Kosovo, sono in tanti e nelle stesse condizioni. Giovani e padri di famiglia leggermente ricurvi e cotti dal sole. Considerando la fisicità del duro lavoro che svolgono, è facilmente intuibile anche il loro basso livello di istruzione. E' difficile comunicare con tutti loro (per via del mio albanese e del loro inglese), ma con una gestualità che non mi manca ho fatto capire al simpatico Besim che il posto accanto al mio era libero.
Alle 19.10 si parte. Dopo un veloce check-in da parte del secondo autista la TV si accende e la musica tradizionale kosovara inizia a spaccare le casse. E' terribile questo suono, a tratti nauseante, ma c'è ben poco da lagnarsi, nessuno darebbe retta a eventuali lamentele visto che questo genere musicale attecchisce molto qui, anche tra i giovani. Non ci voglio pensare. Il viaggio è lungo ed è appena cominciato. Parto comunque con un sorriso che mi riempie gli occhi.
Questo viaggio alla fine è una boccata d'ossigeno anche per i miei compagni di viaggio.

Alcuni dei video musicali che trasmettono per intrattenere il passeggero







anche quest'ultimo è abbastanza rilassante! vero?

KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO